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Il lavoratore in nero è equiparato a quello subordinato a tempo indeterminato


Anche se non formalizzato con un contratto e non regolarizzato presso le amministrazioni competenti, il lavoro in nero viene considerato dalla legge come un vero e proprio lavoro subordinato a tempo indeterminato, a tutti gli effetti.

Dunque, al lavoratore che abbia svolto attività di fatto spettano gli stessi diritti, garanzie, retribuzioni e tutele previste dall’ordinamento per i dipendenti assunti regolarmente.

Per esempio, il licenziamento intimato in forma orale a chi abbia lavorato in nero è considerato illegittimo e non produce effetti, proprio perché esso deve seguire le forme e le modalità previste dalla legge per i lavoratori regolari.

Anche le retribuzioni devono essere le stesse.

Insomma, tra le due categorie di lavoratori la legge non pone differenze sul piano dei diritti e delle tutele solo perché il datore di lavoro abbia voluto, per gli uni e non per gli altri, regolarizzare il rapporto.

Per ottenere tale equiparazione e, quindi, il riconoscimento delle differenze retributive, il T.F.R. (cosiddetta “buonauscita”) e tutte le restanti garanzie previste per il lavoratore subordinato, il lavoratore in nero deve intentare una causa al proprio datore di lavoro.

Durante la causa per ottenere le differenze retributive, che può essere svolta anche dopo la cessazione del rapporto di lavoro (purché entro cinque anni), è necessario dimostrare che l’interessato abbia svolto l’attività all’interno dell’azienda, osservato con continuità gli orari di lavoro, subìto le direttive impartitegli dal capo e soggetto al controllo di questi, così come tutti gli altri colleghi regolarizzati.

Si può ottenere anche il riconoscimento delle ferie, permessi e festività non godute, purché si dia la prova della mancata fruizione durante gli anni di servizi [1].

A ricordare questo principio – ormai costante nella giurisprudenza – è stata una recente sentenza della Cassazione.

In tale decisione, la Suprema Corte ha altresì chiarito che non rileva che il lavoratore abbia fornito alcune dichiarazioni nel libretto sanitario, dalle quali emergerebbe un impegno solo saltuario presso l’azienda incriminata: si tratta infatti di dichiarazioni tendenti a proteggere il datore di lavoro. Dunque tale documento non ha alcun valore confessorio [3] e non serve a salvare l’impresa dalla condanna.

Insomma, nell’ambito dei rapporti di lavoro prevale il cosiddetto “principio della effettività”, ossia la circostanza che la prestazione subordinata sia stata di fatto svolta, a prescindere se e con quali forme: se la sostanza è quella di un rapporto subordinato a tutti gli effetti, la legge lo considera tale, riconoscendo al lavoratore tutte le conseguenti garanzie.



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