Licenziamento illegittimo. Quando spetta la reintegra e quando il risarcimento?
Con la cancellazione dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori, anche quando il licenziamento è illegittimo al dipendente spetta solo un indennizzo. Sono pochi, anzi pochissimi, i casi in cui si può ancora sperare nella reintegra sul posto di lavoro. È il caso, ad esempio, del «licenziamento orale», perché si considera come mai avvenuto (il licenziamento, infatti, deve avvenire sempre per iscritto); o nel caso del licenziamento «per motivi discriminatori» (come quello nei confronti della lavoratrice incinta), per causa di matrimonio. Quando invece il licenziamento ha natura disciplinare, ossia trae causa dal comportamento illecito o colpevole del dipendente, spetta la reintegra solo se il giudice accerta l’inesistenza del fatto attribuito al lavoratore; al contrario, se il fatto esiste ma non è tanto grave da giustificare il licenziamento spetta l’indennizzo. È quanto ricorda la Cassazione con una recente sentenza (Cass. sent. n. 17528/17). Ma procediamo con ordine e vediamo, in caso di licenziamento illegittimo, quando spetta la reintegra e quando invece il risarcimento.
Nei casi in cui viene intimato il licenziamento ma questo è per motivi attinenti al sesso, alla razza, alla religione, alle idee politiche o sindacali, allo stato di eventuale gravidanza spetta sempre la reintegra, a prescindere dalle dimensioni dell’azienda.
Nel caso di licenziamento dettato da motivazioni disciplinari (è il caso del licenziamento per giusta causa – ossia in tronco – e di quello per giustificato motivo soggettivo), le conseguenze nel caso in cui il giudice accerti l’inesistenza del fatto addebitato al lavoratore variano a seconda delle dimensioni dell’azienda, ossia a seconda che abbia più o meno di 15 dipendenti.
Se il giudice ritiene illegittimo il licenziamento perché, pur esistendo il fatto, esso non è talmente grave da giustificare il licenziamento, al dipendente spetta solo il risarcimento. Si pensi al dipendente che viene trovato, per una sola volta, assente alla visita fiscale e fuori di casa durante la malattia. Se il giudice ritiene che tale comportamento non sia tale da giustificare la perdita del posto di lavoro, condanna l’azienda al pagamento di una indennità. Tale indennità è pari a 2 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a 4 e non superiore a 24 mensilità.
Se invece il giudice accerta che il fatto addebitato al dipendente è del tutto inesistente (si pensi al caso di un’accusa di furto invece smentita dalle registrazioni delle telecamere), al dipendente spetta la reintegra sul posto di lavoro. Il datore viene altresì condannato al pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del Tfr dal giorno del licenziamento fino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto quanto il lavoratore abbia percepito per lo svolgimento di altre attività lavorative, nonché quanto avrebbe potuto percepire accettando una congrua offerta di lavoro. In ogni caso la misura dell’indennità risarcitoria relativa al periodo antecedente alla pronuncia di reintegrazione non può essere superiore a 12 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR. L’azienda deve poi pagare i contributi previdenziali e assistenziali dal giorno del licenziamento fino a quello dell’effettiva reintegrazione.
Il lavoratore può tuttavia declinare la reintegra e scegliere per l’indennità sostitutiva della reintegrazione.
In sintesi, l’inesistenza giuridica del fatto contestato posto alla base del licenziamento fa scattare la reintegra del lavoratore. Diverso è il caso in cui il fatto indicato a fondamento del licenziamento esiste ma non è tale da integrare il giustificato motivo o la giusta causa perché in tal caso spetta solo l’indennità.
In tutti i casi il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento, e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità di importo pari a 1 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del Tfr per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a 2 e non superiore a 6 mensilità.
Se il licenziamento risulta inflitto per un patto di prova che non poteva essere stipulato o se la stessa prova non è stata correttamente eseguita e il recesso è fondato su ragioni differenti e personali, il dipendente dunque ha diritto a riottenere il posto di lavoro.