Lo stato delle cose. Un contributo del nostro amico Luca
Cari Amici, vi proponiamo un piacevolissimo scritto del nostro "amico Luca". Un contributo che abbraccia varie tematiche. Tra queste, l'economia circolare e lo spreco alimentare.
Buona lettura!!!
I Giuliano
“Dove c’è una combustione c’è uno scarico”, ripete uno dei più grandi pensatori di questo secolo. Giuliano, il titolare di questa massima, è un mio amico idraulico rumeno. Perché filosofi, intellettuali e politici vengono soppiantati, almeno in questo breve scorcio di millennio, da Giuliano è facile da spiegare: nessuno di loro riesce più a elaborare ed esporre teorie sull’eguaglianza. Abbiamo trasformato il nostro pianeta in un’enorme e circolare combustione (sociale, ambientale, politica), senza prevedere alcuno sfiatatoio per i fumi sprigionati. I beni di consumo, elementi diffusi e utili alla nostra esistenza, ad esempio il cibo, vengono sottratti al loro valore intrinseco di “mantenimento della specie umana”, per assurgere a simbolo di merce di scambio e, in quanto tale, esclusi da ogni pubblica utilità. Si dice che la logica liberale ha i suoi equilibri e i suoi contrappesi. Ma provate a mettere una gallina addormentata in una gabbia di leoni affamati e vi renderete conto, anche senza essere dei geni, che tra due forze così sbilanciate una soccombe. Quale? Oramai nella nostra società valiamo quello che possediamo e gli svariati miliardi di individui che non hanno un tubo, valgono esattamente un tubo. L’Uomo ha cercato di riservare solo per se privilegi assoluti: il rapporto con la trascendenza, con l’idealismo, dimenticando di essere uno dei tanti anelli della natura. In parole semplici non siamo meglio di altre specie viventi solo perché usiamo il profumo. E, secondo il grande pensatore rumeno, non abbiamo il diritto di dissanguare, umiliare, uccidere una parte consistente del genere umano solo perché non ha i soldi per comprarsi un profumo. Lo sviluppo, pur cruento, dell’umanità ha sempre avuto come perno centrale un senso di “responsabilità” quasi diretta tra il padrone e i suoi sottostanti. Per quanto può sembrare assurdo lo schiavo dell’antichità aveva maggiori diritti dello schiavo odierno. “Anche se non ce la fai, non puoi buttarti a terra”, altra preziosa massima di Giuliano che sottintende come in questa postmodernità ogni debolezza ci trasforma in “rifiuto”. Mentre in epoche passate il concetto stesso di “rifiuto umano non riciclabile” non era contemplato neanche dai padroni più sanguinari. Il pensiero liberale può funzionare per quanto riguarda la regolazione dell’economia di una famiglia contadina primitiva. Un anelito all’autosufficienza del capitale che è positivo fin quando il contadino non va da un altro contadino a fare uno scambio. Patate contro mele, per esempio, già bastano a creare una transizione che ha bisogno di essere equa e regolamentata, altrimenti è pericolosa. Invece, oltre a Giuliano, pochi pensatori illustri la pensano così. Quasi che il “rifiuto umano” sia una parte fisiologica dei meccanismi di produzione. Il valore degli uomini è dato dall’equazione: cosa fai, come lo fai, quando lo fai, dove lo fai e perché lo fai. La parabola esistenziale di ognuno di noi è racchiusa in questa formula. Ebbene quando le imprevedibili maree dei cicli produttivi cancellano una o più variabili di questa equazione finiamo per diventare degli zeri. Un po’ come quando dopo una meravigliosa cenetta romantica ci viene un attacco di mal di pancia. II Armando L’errore basilare dei pensatori è immaginare che questo tipo di società sia eterno. Molti sistemi “umani” si sono succeduti fin noi e altri, se non ci auto estinguiamo, si succederanno. Nella nostra società il legame basilare tra gli uomini è dato dallo scambio. Ma se per qualche motivo quello che noi facciamo non ha una collocazione nel mercato, non diventa inutile quello che produciamo, ma noi stessi. Ad esempio: l’operaio fa l’operaio, l’agricoltore fa l’agricoltore e questo, pur con mille contraddizioni, ha dato l’impulso alla società di crescere. Ma che succede se non abbiamo più fabbriche dove impiegare l’operaio? Se coltivare pomodori non produce nessun reddito? Le spinte, sempre più individualistiche che muovono ognuno di noi, non solo non ci porta a rispondere a questa domanda ma spinge, la stragrande maggioranza, a non porsela neanche. E l’equilibrio? Diventa un arnese superato che riguarda folli e cretini. Ammetto con molto candore che Giuliano ed io apparteniamo ad entrambe le categorie. Però continuiamo a riflettere su come laddove il lavoro non crea valore, non solo il singolo individuo rischia di arenarsi ma è lo stesso sistema sociale che rischia il crack. Armando, la buona anima di Armando, era un vetturino. Emigrò molto giovane da un piccolo paese della Calabria a Milano, dove lo ho conosciuto. Negli anni sessanta è entrato in Ferrovie. Non toccava mai lo stipendio e consegnava alla moglie le mance e, con queste, tiravano avanti. Con il risparmio ha comprato una casa e dopo qualche anno un'altra. Ha cresciuto, sistemato, laureato tre figli ed è andato in pensione come un signorino. Già il successore di Armando al lavoro si è trovato una condizione molto diversa. Le mance sono diminuite o scomparse, il valore in termini di potere di acquisto del salario è sceso e le aspettative che il consumismo ci ha progressivamente imposto, hanno influito a non avere nessun risparmio. Non ha sistemato figli ed è andato in pensione come un pezzente. Ma poi che è successo all’ipotetico suo successore? Privatizzazioni, euro, caro affitti, disgregazione familiare e, ciliegina sulla torta, soppressione dei vagoni letto sui treni e perdita del lavoro. Come mai nello stesso Paese e a distanza di pochi decenni i destini dei tre vetturini sono così diversi? Come mai un Paese uscito dalla guerra con le pezze al culo ha creato tanto sviluppo sociale? Ricordiamoci che nel dopoguerra il latifondo, l’assenza di garanzie sul lavoro e l’estrema povertà diffusa avevano creato delle sacche sociali molto prossime alla schiavitù. E, triste da ammetterlo, molto simili alla nuova schiavitù che imponiamo agli extracomunitari. Per intenderci: chi coglieva le olive veniva pagato con circa un kilo di olio ogni quintale di olive raccolte. A mani nude e spesso nel ghiaccio. Per raccogliere un quintale di olive, più o meno, si impiegava un giorno. Fate un po’ i conti. Lo sviluppo di quegli anni non è dato solo dalla congiuntura economica favorevole. Le forze politiche, gli intellettuali, persino parte dell’opinione pubblica si interrogava su un concetto dimenticato: l’equilibrio. III la via delle sedie A Napoli, tradizione vuole, che le piccole attività artigiane o commerciali che si occupano di uno stesso articolo, sorgano nello stesso vicolo. La via dei librai, quella dei robivecchi…eccetera eccetera. La concorrenza tra le diverse attività creava sviluppo per tutti: clienti e operatori. Cosa vendono i commercianti ed ex artigiani della via delle sedie a Napoli adesso? Tutti lo stesso articolo. “Un’ inevitabile spinta alle grandi concentrazioni e ai monopoli”, direte. “Ma molti generi merceologici sono di origine cinese”, continuerete. “E’, in sintesi, la globalizzazione”, concluderete. Tutto vero: avete ragione voi. Ma è così sensato non opporre resistenza alcuna alle trasformazioni della società? La disintegrazione di ogni tipo di comunità intermedia non conduce al fascismo? Se diamo un occhio all’andamento politico mondiale, questo non sta già succedendo? Nel 1832 Alexis de Tocqueville scriveva: “ Il grande patrimonio tende a scomparire, il numero delle piccole fortune a crescere”. Cosa è successo in questi ultimi due secoli è chiaro: progressivamente 1% della popolazione si è arricchito al punto tale da possedere oltre il 90% del patrimonio mondiale. Secondo il mite idraulico rumeno Giuliano, Tocqueville aveva torto. “Guarda che sta succedendo in Romania: un caffè costa un euro quanto in Italia e il salario è un terzo che il vostro. Contadini e artigiani stanno scomparendo e quello che ci è stato presentato come un sogno di tutti, si sta trasformando in paradiso per alcuni”. In Italia, ad esempio, due o tre famiglie (legate anche da vincoli di amicizia e parentela tra loro) posseggono quasi tutta la filiera della editoria: case editrici, distributori, grossisti, librerie, promotori e, perché no, giornali e televisioni. Una concentrazione che inficia ogni logica concorrenziale. E che ha creato scompiglio solo quando questa corporazione di potere è stata minacciata dai grandi colossi mondiali. E’ tardi editori: se, in passato, avete utilizzato questo sistema per cannibalizzare, adesso non vi lamentate se verrete cannibalizzati. E’ la stessa logica del “chiodo scaccia chiodo” che, purtroppo però, si trasforma nella brutale formula: “quattro chiodi fanno una croce”. Alcuni pensatori, prima di Giuliano, hanno sostenuto che l’accumulo di ricchezza da parte di pochi, significa accumulo di miseria da parte di molti. Omar è la mia croce della via delle sedie. Il suo lavoro consiste nel procacciare clienti ai commercianti della via. Io cercavo un paio di sedie d’occasione e lui si è proposto come cicerone nel mio business. Omar è egiziano. Non ha uno stipendio ne, tantomeno, un chiaro accordo commerciale. Lui porta clienti al negozio e, se l’affare si conclude, prende una piccola mancia. E’, in un certo senso, l’anello debole della catena produttiva. Non ha una potenziale crescita di sapere e di professione come, ad esempio, sarebbe stato se fosse un apprendista. Non costruisce un credibile itinerario di integrazione con il nostro Paese. Non costruisce un rapporto credibile con il suo: immaginare un risparmio e un ritorno a casa. Quale sarà il suo destino? A Napoli abbiamo una definizione credibile per tutto: “uno senza arte, ne parte”. Ed è un po’ quello che, progressivamente, toccherà a quattro/cinque miliardi di esseri umani, compresi molti di noi. IV Avvitatore Avete idea del perché i tubi di scarico delle acque bianche, per intenderci i sifoni sotto i lavandini, hanno delle piccole curve? Le curve non impediscono all’acqua di confluire verso il basso, ma impediscono agli odori di salire verso l’alto. In pratica evitano alle nostre case di puzzare di fogna. Il pensiero di Giuliano è un po’ così: mai netto o lineare. Ha superato con l’istinto ogni forma del hegelismo imperante, per sostituirlo ad un ragionamento presocratico. Niente scontri di classe, di sistemi, di verità ma una visione morbida e obliqua del nostro tempo. Questa caratteristica ci ha evitato che i nostri ripetuti e aspri scontri intellettuali degenerassero in rissa. Una volta gli avevo prestato il mio meraviglioso avvitatore Hilti e lui si è presentato all’appuntamento per restituirmelo con due birre ghiacciate in un sacchetto. E’ stato molto complesso per me non mettergli le mani alla gola e seguirlo nelle sue argomentazioni. In breve: prima di andare a lavorare si era fermato in un bar frequentato da altri pensatori rumeni. Aveva preso un caffè e deciso di giocare due euro in una macchinetta. Come ipnotizzato ha bruciato in quel gioco tutti i contanti che aveva in tasca. Un suo amico gli ha proposto di acquistare il mio avvitatore alla cifra di 140 euro. Giuliano, convinto di avere la meglio sulla macchinetta, ha accettato l’affare. Ma ha perso pure i soldi miei e, particolare increscioso, anche le due birre con le quali si era presentato erano state prese dal minimarket adiacente e rigorosamente segnate sul mio conto. Giuliano sosteneva di non avere nessuna responsabilità: erano le macchine, avvitatore e slot, ad essere colpevoli dell’accaduto. Ogni pensiero rivoluzionario può apparire, a primo acchito, folle. Ma, dopo ampie riflessioni, ho capito che Giuliano mi aveva regalato un’altra profondissima verità filosofica. Perdonatemi la pedagogica. L’avvitatore hilti è uno status per determinate categorie umane. Non è che sia migliore o più potente di altre marche. Rappresenta l’eccellenza del settore e, per alcuni, una specie di coperta di Linus. Il numero dei lavoratori potenziali aumenta, mentre il numero dei posti a disposizione diminuisce. Possedere un avvitatore hilti da l’illusione di essere un professionista, anche senza aver nessun impiego. Una maschera che, per quanto illusoria, da una certa consolazione. La macchinetta, meglio la slot, invece è il simbolo di un sistema produttivo che è giunto in una fase terminale. Non regala sogni, si possono vincere se tutto va bene, poche centinaia di euro. Non regala emozioni: è un gioco meccanico, ripetitivo e scevro da ogni abilità. Da soltanto compulsioni. Lo scontro tra queste due macchine, che ha avuto come protagonista Giuliano, non è altro che la moderna riproposizione dell’avere o essere. “Dell’essere o non essere”, del dramma identitario proprio dei nostri tempi: se preferire fare finta di essere o finta di avere. Una contrapposizione che in una società disintegrata, dove un’intera generazione non ha lavoro vero e mai lo avrà, dove eserciti di nuovi schiavi affollano i bar a guardare il vuoto, dove la classe media scompare in livorosi mal di pancia e paure, assume i toni e i contorni di una nuova e sotterranea tragedia mondiale. V Il Capitano “Lungi dall’essere una garanzia per il futuro, la classe media è un tragico, sfortunato relitto del passato. Incapace di estirparla del tutto, il capitalismo è riuscito a ridurla al punto più estremo di degradazione e sofferenza.” E’ il vecchio Trockij, non l’amico Giuliano. Un mio amichetto d’infanzia aveva il papà disoccupato. Niente drammi in casa, la mamma era benestante e la casa di proprietà. Quello che mi stupiva, già allora, era la “rappresentazione” che veniva messa in scena per nascondere la verità. “Il capitano è nel suo studio a lavorare, non fate rumore…” ci rimproverava la solerte mamma dell’amico. Parole crociate o giornaletti porno, il capitano sedeva immobile dietro una scrivania imponente e aveva tutta l’aria di annoiarsi molto. Ma ogni mattina si vestiva come un dirigente aziendale e sedeva a quella scrivania fino a pranzo. Poi, dopo un meritato riposino, ci tornava fino a cena. Privilegio o terribile punizione? Giuliano una volta buttò nell’immondizia il mio book di presentazione e diversi manoscritti inediti. Mi stava aiutando nel pericoloso tentativo di mettere in ordine la mia roba e voleva evitare, cosa che era già successa mille volte, che io dopo pochi minuti abbandonassi il campo. Era risoluto e, più io mi paralizzavo davanti a tutte quelle carte, più il suo spirito da zingaro rumeno diventava crudele. Ogni mia resistenza o supplica era vana: andava tutto gettato nell’immondizia. Fu doloroso, ma vi assicuro molto rigenerante. Come quando il dentista ci toglie un molare malato. Giuliano sostiene che i *fintiricchi*, ossia io, non sono poveri perché poveri, ma perché fingono di non esserlo. Alcuni mestieri, o meglio, alcune categorie sociali non vedono nella finzione, nel famoso “mantenere un contegno”, una cifra di diversificazione ne, tanto meno, di redenzione. Per Giuliano un uomo che ha fame è un uomo che ha fame e poco importa quali siano le sue velleità artistiche o le aspettative che il suo ambiente sociale riponeva su di lui. Ho amici che fingono di lavorare in borsa, altri che organizzano riunioni fiume su progetti che sono irrealizzabili e che, soprattutto, non hanno credenziali ed entrature per presentare. Altri che chiedono prestiti in giro per continuare lavori che non producono reddito o prestigio da svariati anni. Altri ancora per cui il lavoro è da sempre un costo. Non è meglio allora mettersi a fare volontariato? Almeno si raggiunge un *virtuoso* zero di bilancio, mentre scivolare in profondi rossi esistenziali e bancari mi sembra un atteggiamento poco accorto. E, tutto questo, con un unico scopo: camuffare il proprio inevitabile declino. C’è vergogna, una rabbia sorda e ottusa, qualcosa che invece di unire nella lotta alla sopravvivenza, isola, mortifica, tritura. Annienta ancor più della stessa fame. E’ la malattia della classe media. La dittatura dell’aperitivo nel bar elegante, quando non si hanno i soldi per pagare le bollette. Il filosofo Giuliano mi ha insegnato a non aver paura di tutto questo. Liberarmi dalle catene dello spritz e a guardare la vita come i miei avi pescatori: ogni giorno una rete, una barca e un porto dove rientrare. VI la paura “La paura, le paure, sono *situazioni emotive *intime personalissime e, in quanto tali, non condivisibili” mi ripete ossessivamente l’amico Silvio, noto pensatore del Vomero Alto. “Abbiamo sostituito l’idea di un Dio con una paura immotivata e metafisica” sostiene Giorgio pensatore e pescatore del quartiere Pendino. Praticamente alterniamo Grandi depressioni cosmiche (guerre, epidemie, crisi economiche, calamità naturali, terrorismi) a Piccole depressioni ( crolli personali, decomposizioni familiari, malattie e morti, solitudini) e, il tutto, senza avere una linea guida ideologica o morale da seguire. Un po’ come quando ci indigniamo, per pochi istanti, su facebook per il cane abbandonato a Termini Imerese o per la bambina in lacrime alla frontiera tra Messico e Stati Uniti. Una reazione emotiva che dura il tempo di un click, che non ci spinge ad elaborare un progetto politico. Giuliano, essendo un filosofo post hegeliano, non ha una sistematica visione d’insieme dei mali della società e, in questo senso, non ci può essere d’aiuto. Il suo approccio al *malessere *è di natura empirica: una tensione ideologica atta a risolvere il mistero del calzino scomparso, piuttosto che cercare la ricetta della felicità. Anche adesso, proprio mentre vi scrivo, sono tormentato dal dramma del calzino scomparso. Come è possibile, mi ripeto che ogni volta che metto in ordine i calzini, che me ne manca sempre uno? Qui si palesa il vuoto incolmabile che la modernità ha generato: l’infinito, nelle sue accezioni poetiche, politiche e sentimentali non può essere sostituito dal nulla. Dal freddo ragionamento analitico. Il calzino che scompare non è altro che uno dei tanti misteri che l’umanità deve imparare a interiorizzare con rispetto, non attraverso logica e deduzione. Ci sono angoli bui nella vita di un uomo che visti con troppa scientificità, si riducono a pezzi di ricambio per lavatrici. Invece sono da sempre e per sempre quegli aneliti che il vecchio Giacomo sintetizzava nella dolcezza a naufragare in questo mare. Essere Uomo tra Uomini, collegarsi a se stessi con *dolcezza*, in un naufragio che non è altro che accettazione. L’uomo moderno si collega all’infinito, sostiene Giuliano, solo attraverso lo sciacquone del cesso. Nel preciso istante che invia i propri rifiuti di macchina metabolica in un imprecisato luogo dove si riuniscono con quelli di altri. Una comunanza impersonale che genera fetore e cinismo. Per il resto della giornata siamo morbosamente concentrati su noi stessi. Giuliano è un filosofo senza fede o fedi. Non ha un Dio, ne una squadra di calcio per intenderci. Il suo essere al mondo è quasi un incidente di percorso. L’altro giorno, era notte inoltrata, mi ero attardato a chiacchierare con due amici. Non mi andava di aspettare l’autobus notturno e ho camminato per diversi chilometri. A un certo punto del mio vagare è nata dentro di me l’esigenza di una birra e un po’ d’umanità. Ero giù, oscillando nervosamente tra depressioni e paure. Era tutto chiuso. A Piazza Mercato ho scorto una luce accesa. Un naufrago che scorge un faro nel mare in tempesta. Ho comprato una Peroni e su una panchina mi sono ri-collegato all’infinito. Sbagliamo continuamente e la cosa migliore è che continuamente continueremo a farlo. VII Carmine Carmine vende copie di Lotta Comunista fuori dalla fermata della metropolitana Università. Giornale poco ammiccante con titoli tipo: Il caso cinese nel declino Atlantico. Quattro, a volte cinque ore di permanenza con risultati *commercialideologici* molto scarni: si va dalle tre copie allo zero. Giuliano sostiene che un simile accanimento è assai poco ortodosso rispetto alle tempeste ideologiche che ne sono alla base. Avrà, come quasi sempre, ragione lui? Carmine, incalzato dalle mie domande, mi risponde: “la lotta è anche questo.” Scivolerei nel banale a presentare il caso Carmine come il classico: due braccia tolte all’agricoltura. Per due motivi: non è detto, di questi tempi, che un giorno a zappare renda di più di zero. Non è detto che Carmine con il suo occhialino *raiban* e la sua scarpina griffata sappia farlo. Come fare, in un momento in cui tutto ci frana attorno, a puntellare qualcosa che sia, al tempo stesso, giusta e praticabile? Continuare con migliaia di distinguo, postille e sigle a dichiararci comunisti? E come praticare quotidianamente, direbbe il grande Ingrao, esserlo? Come trasformare la nostra costante indignazione in sforzo politico? In un brano illuminato degli Alunni del sole c’è una strofa il cui concetto suona più o meno così: “che mi hai insegnato a fare il bene, se è solamente per gioco?” Inevitabile, per quanto dolorosissima, la citazione da “Amaro è o bene” di Sergio Bruni. … *Amaro è o bene, amari sono i baci che mi dai. Non ha cielo, il nostro amore non ha domani... *Che cos’è il bene e il male? Nell’amore, quanto nella politica, come distinguere ciò che è giusto da ciò che non lo è? Dall’Illuminismo fino a Giuliano il pensiero contemporaneo si è distinto per la sua vaghezza morale. “Ragion di stato”, “Il male minore”, “l’uso fisiologico della violenza”, “tassi di miseria tollerabili”, eccetera eccetera. Uno sforzo titanico per fare slittare l’Uomo ai margini del pensiero politico ed economico. Il sistema, inteso come intreccio di scambi commerciali, ha avuto intelligenti impulsi verso il miglioramento della condizione umana. Ma l’Uomo, il suo specifico peso morale, non ha più contato un tubo. Giuliano che di tubi se ne intende, invece riporta prepotentemente l’Uomo al centro della scena filosofica. Ma è uno dei pochi: il pensiero comune cerca il suo equilibrio tra bene e male relativizzandoli. Come giustificare, altrimenti, le centinaia di sopraffazioni che avvengono quotidianamente. Un po’ come i bombardamenti chirurgici, contraddizione in termini, per giustificare gli effetti indesiderati delle stesse operazioni militari. Quegli “effetti indesiderati” sono inermi ed innocenti esseri umani che muoiono. Giuliano e Carmine, pur nella loro diversità, hanno una reazione istintiva e identica ad ogni tipo di barbarie. Direte che forse è ottusa, ma credo che da questa ottusità si debba ripartire. Riesumare l’undicesimo comandamento: non fare ad altri quello che non vuoi che venga fatto a te stesso. Vi piacerebbe essere un danno collaterale e saltare in aria in una bella giornata di maggio? VIII Kiwi Ansel, grande fotografo-filosofo, sosteneva che nella vita, come nella fotografia bisogna avere delle priorità. Al *punto di vista *(la scelta di quale prospettiva dare al soggetto) bisogna aggiungere il concetto di forza visiva (la scelta della luce prioritaria da dare alla scena). Il suo *sistema zonale *si può sintetizzare in due concetti: piazzamento e caduta. Impostata la luce principale che illumina la nostra scena, bisogna calibrare dove vanno a collocarsi le altre luci. Giuliano ha fatto sua questa dottrina aggiungendo il concetto di *caduta libera. *Ossia laddove la nostra forza politica, culturale e filosofica non riesce a controllare alcuni elementi bisogna accettare l’idea che essi decidano autonomamente dove collocarsi. Tranne l’incomprensibile pulsione verso l’industria tedesca, il nostro filosofo non ha preclusioni o rigidità nei confronti degli esseri umani. La sua osservazione empirica dell’esistenza si basa su un unico strumento: l’empatia. Una volta, doveva comprare le pasticche dei freni per la sua Skoda, mi ha obbligato ad una maratona su internet alla ricerca di un rivenditore tedesco che gliele vendesse per corrispondenza. Il risparmio di poche decine di euro non valeva l’impresa. Allora perché? “ Vedi…abbiamo risparmiato venti euro…e adesso possiamo mangiare una pizza insieme, alla faccia di chi ci vuole male.” Non era quindi l’esigua monetizzazione a motivare Giuliano nella sua ricerca internazionale, quanto il risultato che quel “gesto” generava. La pizza e il prestigio che quel risparmio scatenava in altri pensatori-meccanici rumeni che, molto avidamente, avevano gonfiato il prezzo delle pasticche dei freni. Anche la buonanima della mia mamma utilizzava il sistema zonale di Ansel per fare la spesa. Ricordo che alle volte rientrava a casa con la sua Panda stracolma di Kiwi e, per svariati decenni, mi sono domandato il perché. Anticalvinismo radicale o malinconia proustiana, non ho mai più mangiato Kiwi. Sbucciarli è pericoloso emotivamente e noiosissimo tecnicamente. Qualche giorno fa ho avuto dalla amica Maria, nota pensatrice circunvesuviana, una cassetta di Kiwi del mercato Pendino in omaggio. Che fare? Il kiwi è definito commercialmente da tre fattori: buccia pelosa, colore marrone, dimensione. Dimensione? Esattamente: esiste un “registro” ossia una dimensione standard con la quale il Kiwi deve affacciarsi sugli scaffali dei supermercati. I kiwi leggermente più grandi, o quelli più piccoli hanno due strade: essere rifiuto o finire nel mercato parallelo del contrabbando di kiwi. Così la mia povera mamma comprava Kiwi di contrabbando per due motivi: risparmiare e sottrarsi istintivamente alla stupidità imperante. Proprio adesso, mentre scrivo sul pensiero di Giuliano tentando di dare il mio contributo alla salvezza dell’umanità, milioni di persone muoiono di fame e altri buttano kiwi perché “diversi”. C’è un preciso intento educativo nel comprare pasticche dei freni in Germania e kiwi anarchici di contrabbando al Pendino. L’essenza del pensiero filosofico di Giuliano è che nell’era dei post non siamo ciò che produciamo, ma ciò che rifiutiamo. Conclusioni Ma dove eravamo rimasti? A Roberta che da Roma mi chiedeva cosa significa *0 monaciello. *Chatta con un napoletano. Ma non vanno mai oltre. Una frigidità fulminante. Le nostre menopause sono terribili. Nascondono in ogni attimo un bilancio. Per questo la gente non s’incontra più: per non giustificarsi. Come stai? Domanda di riserva. Che fai? Domanda di riserva. Come stanno i tuoi? Domanda di riserva. Dobbiamo iniziare a porci domande a piacere. Come quando le insegnanti vogliono aiutare un alunno tonto. Essere al mondo per Giuliano è altro. Una compiutezza fatta di accettazione del destino nostro e di quelli che amiamo. Si nasce, si da vita, si muore e, ogni tanto, si beve una birra in compagnia. Basta. Ho conosciuto molta gente felice e serena di aver fatto solo questo. Poi, perché, io che ho fatto? Cosa avete fatto voi negli ultimi anni? Vi siete costruiti delle onde esistenziali e da quelle onde siete caduti. Cambiano le tipologia delle sfide, ma il risultato è sempre lo stesso. Si torna lentamente al punto di partenza: quell’insieme di fango e argilla da cui nasce e torna ogni vita. Ma parlo solo io. Mi sono perso un sacco di puntate delle vostre esistenze. Come avete fatto a rimanere in piedi cadendo? Noi occidentali facciamo un’enorme fatica ad accettare il tramonto della nostra fallocentricità. Stiamo sempre a misurarci. Qui si palesa la macelleria sociale che, secondo il grande pensatore rumeno, ci sta auto-estinguendo. La tenerezza, la capacità di accettarci così come siamo, si è dissolta. Siamo falliti nei nostri bisogni, prima che nei nostri sogni.
(Amico Luca)