La danza immobile. Dell'amico Luca
Nei rapporti personali sono una frana. Ho creato e creo incomprensioni e litigi. Funziono, in pratica, solo nei rapporti mediati. Anche quando ero ragazzo andava così. Al Liceo avevo una vicina di banco molto dedita a me. Già allora, stretto nella morsa di un carattere di merda, avevo ribellioni e comportamenti abbastanza stravaganti. Devo confessare che, per lunghi periodi della vita, ho avuto la gran fortuna di trovare sempre qualcuno che mi facesse “cadere in piedi”. La amica Maria ha avuto più rogne di me nell’ espletare questa funzione, ma la ha svolta senza tentennamenti per cinque anni e in tante occasioni diverse. Una volta l’insegnante di matematica mise ad entrambi due, ma solo a lei anche una nota. Nonostante la “malefatta” in questione fosse esclusivamente e dichiaratamente del sottoscritto. Avevo risolto un’ equazione con una frase: ama la natura e usa il casco. Eppure l’ unico rimprovero di Maria era ripetere due volte il mio nome. Luca…Luca, il primo con un’ intonazione dolce, il secondo con una c che acquistava il sapore duro di una K. Era figlia di un operaio dell’Italsider di Bagnoli e a Bagnoli viveva. La fabbrica era già in fase di dismissione, ma il quartiere operaio manteneva intatte le sue peculiarità. Maria, e non è una deduzione malinconica da pensatore in menopausa, già allora rappresentava ai miei occhi un simbolo di riscatto. Il suo stesso sguardo, a metà tra una bambenella e copp’ e quartieri di Viviani e un’ Ave Maria di Schubert, pur essendo nero pece emetteva una luce speciale. Io, ogni volta che osservavo i caschi gialli della fabbrica, mi commuovevo e lei non ne capiva la ragione. Allora appartenevamo a due mondi diversi. Distanze che in una città come Napoli apparivano incolmabili in una sola generazione. La plebe, con la sua lingua informe e l’aristocrazia borghese con i suoi panorami immobili. In mezzo, però, il sogno già fallito ma che non voleva fallire di una classe operaia solo nostra. Per questo mi commuoveva: quella immane forza di appartenenza, tutta racchiusa nello sguardo puro e cocciuto di Maria. Ma tutta, come dire, già superata nel tempo. Napoli, conclusa tragicamente quella stagione operaia, è ripiombata nella sua danza immobile, nel suo teatrino post feudale. Ma allora no: interi quartieri della città, da Gianturco a Bagnoli, vedevano crescere una generazione per cui la vita non era e, fortunatamente non lo è stata, arrabattarsi senza lavoro e senza dignità. La fabbrica. La consapevolezza. Un acceleratore sociale che, la stessa Maria, non percepiva. Lei controbatteva alla mie pippe mentali con quel Lucaluka, ma senza afferrarne il senso, timbrando però uno a uno tutti i miei casini.
Maria si è laureata a pieni voti ed ha intrapreso la carriera universitaria. Adesso è cattedratica in una prestigiosa università ed è un punto di riferimento nazionale nel suo settore. Inspiegabilmente, la cosa anche se falsa mi fa molto onore, riconosce al sottoscritto alcuni meriti del suo cammino esistenziale. E’ sposata con un medico, ha due figli. Ed è esattamente come potete immaginarla: elegante e sobria. Il nostro non fu un legame d’amore. Nel senso che io, colpito alle spalle da una sorta di classismo di ritorno, ero attratto da illusioni proletarie ma inseguivo coetanee altolocate, più libere e in. Mentre lei, completamente in linea con la sua spartana cultura operaia, oltre a dare alla verginità un valore molto alto, cercava un compagno stabile, cattolico, sportivo e definitivo. Caratteristiche lontanissime dallo scrivente.
C’è una data spartiacque nel destino della classe operaia napoletana: il 3 Marzo 1985. La fine dello sciopero dei minatori di Cortonwood, in Inghilterra e la vittoria definitiva di Margaret Thatcher. Riconosco di essermi in parte bevuto il cervello. Ma andate, se non mi credete, in pellegrinaggio silenzioso alla sede della CGIL alla stazione centrale. In quell’ anno era colorata, sempre piena di giovani e punto di riferimento delle più disparate iniziative. Oggi? Corridoi vuoti, stanze chiuse e in disuso e un odore opprimente di disfatta. Quello sciopero che vide coinvolte per un anno oltre centocinquantamila persone e iniziative di sostegno in tutto il mondo, a un certo punto (non chiedetemi il perché), ma iniziò a stare sul culo anche ai partiti di sinistra dell’epoca. Le ripercussioni della resa operaia a Napoli furono devastanti. La borghesia, da sempre diffidente nei confronti dei lavoratori, si sentì libera di non simpatizzare più per nessuna causa persa. Lo stesso movimento di Lotta per il Lavoro finì per essere percepito come qualcosa di superato, di inutile. Il surrogato sintetico della napoletaneità iniziò a diventare l’unico core ‘ngrato business possibile. Un senso di rassegnazione ai fenomeni neoliberisti prese il sopravvento, anche dentro quella parte politica figlia di quella cultura operaia e che da quella forza aveva tratto identità, peso e consenso elettorale. I figli imborghesiti degli operai, diventati classe politica dirigente, volevano conquistare il centro della città. Così è stato, ma a che prezzo?
L’altro giorno, mentre aspettavo Maria alla uscita della funicolare di Montesanto, mi è venuta in testa una frase del nostro amico Francesco Saverio Nitti. E’ un po’ datata, ma va bene così: “ La vera saggezza è nel pensare da pessimista, poiché la natura delle cose è ingiusta e crudele e la illusione è debolezza; ma, nella vita pratica e nella misura del possibile, agire da ottimista poiché nessuna energia, nessuno sforzo di bontà e di amore vanno mai interamente perduti.”
Cosa ha significato la illusione operaia a Napoli? Difficile da sintetizzare, però quel pomeriggio era la mia amica che “scendeva” da me abitando al Vomero, mentre millenni fa era il contrario. E’ un pensiero un tantino autolesionistico avendo il mio ascensore personale ultimamente fuori servizio, ma mi sembra che il destino, almeno tra noi due, abbia ristabilito un’equità: da ragazzini era il mio privilegio immeritato a farmi “scendere” da lei. La luce a Montesanto era limpida, c’era una leggera brezza di tramontana, la mia compagna è arrivata con un’impermeabilino bianco e si staccava dal fondo della folla, dal grigiore dei tanti volti stanchi, con il suo sorriso buono, tutto occhi, tutto operaio. Quante Maria poteva produrre una classe operaia napoletana? Quanti Lucaluka felici ad aspettarle a Montesanto, quasi grati, liberati, che il destino abbia invertito i loro ruoli?
Amico Luca
Studio Legale nel Sociale
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