Il cielo sopra il Pendino. Dell'amico Luca
Chiudete gli occhi. Immaginate di essere delle persone molto eleganti. Colte. Rispettate. Immaginate di girare nei vostri spazi e nelle vostre occupazioni per alcune ore. Immaginate di avere bisogno di fare la pipì e non avere un bagno. Adesso siete in strada e i bar sono tutti chiusi. Oppure non vi fanno entrare. Non abbiate paura: aprite gli occhi e vi stupirete ad osservarvi mentre la fate contro un albero. Vorrei tranquillizzare i difensori del decoro pubblico su un aspetto statisticamente inconfutabile: tranne una percentuale fisiologica di irriducibili, circa il 94% del genere umano se ha un bagno a disposizione lo usa. Eppure la contrapposizione ideologica in atto al Pendino, ridente quartiere nei pressi della Stazione dove risiedo, sui fenomeni “mingiatori” vede due fazioni opposte: i lassisti, ossia coloro per i quali si può farla ovunque e gli integralisti, ossia coloro per i quali si può farla ovunque, tranne vicino casa loro. Il pensiero sinusoidale del vostro amico Luca è un altro: il bagno pubblico. Invece al Pendino è in atto un duro scontro politico sulla pipì degli immigrati. Una guerra che simboleggia quella in atto in Italia tra un “aiutiamoli a casa loro” e un “aiutiamoli a casa nostra, ma non accanto alla mia”. Per chi come me, pur provenendo da una famiglia numerosa, ha sempre avuto un rapporto problematico con i propri bisogni fisiologici, la guerra dell’urina pone degli interrogativi inquietanti. La deriva fascista delle nuove dinamiche sociali tende a trasformare con violenza L’Uomo, nelle sue specialissime peculiarità, in un tablet da ricaricare e scaricare a proprio piacimento. Se non mi credete leggete i manuali del pensiero liberale sulla redditività del lavoro e sulla sua organizzazione e vi accorgerete che la “pausa pipì” è regolamentata con chiari intenti reazionari. L’operaio, quello che resta del fantasma operaio, deve svolgere questa funzione a comando (ossia quando non danneggia i processi di produzione) e in solitudine (ossia senza socializzare e politicizzarsi). Pensate che in alcune fabbriche ad ogni tipo di contratto di lavoro, corrisponde uno specifico bagno.
Ma torniamo al Pendino. Quella parte di Napoli che si snoda tra la Stazione, Porta Nolana e il Porto è da sempre “l’accesso” in città. Un crocevia di razze, di ceti sociali, di architetture. Regolamentare questa anarchia è illusione. Secoli di Tolleranza/Repressione dimostrano che il fiume umano del Pendino ha fatto, fa e farà sempre quello che vuole. Impedisci il contrabbando e i contrabbandieri si mettono a spacciare. Ti vendichi sul parcheggiatore abusivo? E lui si mette a rubare le macchine. Non sto giustificando, ma solo constatando. Per questa “mollezza”, a partire dai primi anni ottanta, è diventato una delle porte d’Europa per gli allora nuovi flussi migratori. E trenta anni di dibattiti violenti su dove fargli fare la pipì, non hanno ancora prodotto un cesso pubblico. Eppure dagli imperatori romani, passando da Napoleone e fino ad arrivare alla buona anima di Marchionne, lo studio e l’organizzazione dei bisogni fisiologici delle truppe non era affidato all’invettiva ma all’inventiva. Il ventre molle della città, che il mio amico Raffaele sommo poeta di Pollena Trocchia, definisce: “lo specifico antropologico”, è un humus informe, di difficile osservazione. Anche i nuovi flussi turistici, da una parte provano attrazione/curiosità verso il nostro “specifico antropologico”, dall’ altra una specie di repulsione/paura. Ieri un turista inglese mi ha chiesto dove poteva vedere gli “scafi blu”? Nei film, gli ho risposto acido, qui sono scomparsi da decenni. Catia, invece, vive in una località imprecisata tra Cercola e Mogadiscio. E’ una delle “mingiatrici” clandestine che si aggirano al Pendino. Lei, ogni mattina, atterra alla stazione centrale e cerca una sopravvivenza onesta vendendo piccole cose. Mi racconta: “Per noi africani la morte si vede. Per voi è diverso: si sente. Io ho perso nella guerra tutti i miei fratelli, però, non li ho visti e quindi sono ancora vivi. Manco da tanto e ho perso mamma e papà. Ma anche a loro non li ho visti morti. Così me ne sto da voi e tutti loro continuano a vivere.” E’ vero: si può sfuggire dalla morte in diversi modi. Scappando dal pericolo di morire. Evitando i luoghi dove, in qualche modo, si è già morti. Dove “rimpatriare” la nostra amica Catia? Lei a Mogadiscio non ha più niente, nessuno. Da dove potrebbe ripartire? Ma poi, dopo più di venticinque anni in Italia, chi è Catia? Per noi italiani una extracomunitaria nera. E in Somalia? Una extracomunitaria nera. La sua identità è, appunto, sospesa tra Cercola e Mogadiscio. E’ musulmana, ma non fa il Ramadam. Si veste come Maria De Filippi. Ha avuto uomini e amori, senza rispettare le sue tradizioni. A volte penso che l’unico campo di atterraggio per questa parte di umanità siano solo “ i pendini” sparsi nel mondo. Zone franche e aperte, dove camuffare il proprio dolore, dove fondersi in un personalissimo “centro di gravità permanente”. Dove raccattare una sopravvivenza diventa uno sforzo non patetico, ma poetico e socializzante. “Mangio, caco e bevo, perché tu cosa altro fai?”
Ma torniamo al pericolo urina. Molti pensatori propendono per risoluzioni non strutturali del problema: ad esempio imporre l’uso del pannolone agli immigrati. Altri tendono ad “estetizzare”, trasformando così la tolleranza in una forma di razzismo di ritorno. Come dire: la fanno anche i cani, perché loro no? Altri, ancora, a “soluzioni definitive”: deportiamoli a fare i loro bisogni sul Vesuvio. Ma siamo sicuri che imponendo dei codici comportamentali borghesi non trasformiamo in un lunapark la nostra “Porta d’Europa”? Come, poi, li imponiamo? Con le ronde del pappagallo? Napoli è una delle poche città al mondo che offre una accoglienza che è identitaria, linguistica. Africani, sud americani, asiatici parlano tutti, indistintamente, il nostro dialetto. In altre città, vi assicuro, questo fenomeno è marginale. C’è una lesbica francese, intellettualissima e simpatica, che vive da anni qui: è tifosissima del Napoli ed ha costretto tutti i parenti d’oltralpe a fare lo stesso. Le magie di Martens diventano, sotto il cielo del Pendino, messaggi d’amore universali, condivisi, forgianti. Bisogna quindi muoversi con molta cautela. Direbbe la mia amica pensatrice della Pignasecca, con bidimensionalità irpina: ossia nell’individuare problemi uno alla volta e tentare uno alla volta di risolverli. E, come al solito, ha ragione lei. Per la pipì, per esempio, suggerisce di inventare il vespasiano.
Amico Luca