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Notizie e aggiornamenti

PRONTIVIA! Dell'amico Luca


Il tavolo è pieno di piatti sporchi e bicchieri vuoti. Enzo si aggira nel salotto della sua casa Riordinando tutto, mentre io lo osservo in silenzio. I suoi gesti sono meccanici, quasi maniacali. La cena è finita, andate in pace. Ma lui, prima di riaccompagnarmi a casa, deve sistemare tutto. Finita l’operazione, prende i centrini della nonna, i pupazzetti della mamma, i ninnoli della moglie e ridisegna il suo presepe esistenziale. “Lo sai che se no, quando rientro, mi viene l’ansia.” Che cosa è la nevrosi dell’Uomo contemporaneo? Perché la ripetizione ossessiva e insulsa di alcuni gesti ci tranquillizza? Guido, invece, prima di andare a letto scrive una frase sul suo taccuino. Sono sempre pensieri infantili, goffi, non appartenenti alla sua cultura e intelligenza. “Poi, un bel giorno, ho visto il sole.” Io, ad esempio, pulisco la macchinetta del caffè. Controllo la posta, come se mi dovesse arrivare nel cuore della notte una bella notizia e, prima di addormentarmi, guardo su Facebook le vite degli altri. Gesti che ci placano, ma da che? Il dio delle piccole cose, che cancellando l’idea di una forza superiore, ci costringe a costruirci dei riti personalissimi per accedere alla nostra isterica salvezza quotidiana. Come se la stessa idea di peccato fosse non sistemare bene i centrini della nonna. Abbiamo sostituito l’idea della Paura trascendentale, con una paura livida, senza scopo, senza una strada per la redenzione. Una mia amica mi ha detto che oggi l’unico peccato è venir meno a se stessi. Come se fossimo un io sacro da adorare e glorificare. Invece, credo, che il vero peccato di noi post-tutto è proprio questo: aver cancellato il concetto di unione, con una perenne e terrena dannazione alla solitudine, all’autosufficienza, alla realizzazione. Un’analità triste, che puzza di lettini psichiatrici, di recriminazioni, di notti insonni, di vorrei ma non posso e dell’ulceroso io…io…io. Una ricerca di se, di una centralità assoluta che ci mortifica, ci preclude ogni gioia, ogni capacità di accettarci/accettare. I riti della nostra quotidianità sono nevrotici proprio per questo: non ci collegano più a nessuninfinito. “Venir meno a noi stessi”, forse, è l’unico non peccato. Venir meno a se stessi nella visione della società, nell’offrirci al prossimo, nell’amore: fonderci, insomma, alla vita degli altrie con gli altri.Ma come? L’idea di un Dio buono e comprensivo è abbastanza praticabile, ma non è per tutti. L’ipotesi post-teologica che siamo chiamati a costruire in terra un paradiso, perché non ci sta altra possibilità che farlo su questo pianeta, è un’altra ipotesi. L’osservare, impotenti ma felici, il fiume in piena della umanità che vive, muore, cammina e mangia è il mio personalissimo stratagemma per evitare che il centrino della nonna diventi il perno del mio equilibrio metafisico. Anche l’orribile immaginazione della morte, deve trasformarsi in una forza centripeta, che ci spinge verso l’altro e ci allontana da un io che, gioco forza, è parziale, limitato, ininfluente.Fonderci ad un centro, religioso o laico, ma più luminoso e meno ostile.

Fabio è un ex tutto: criminale, tossico e alcolizzato. Ha trascorso quaranta, dei suoi cinquanta anni, a commettere reati, a entrare e uscire dalle carceri, a drogarsi, ad essere violento e inattendibile con chi amava e a bere. Poi il botto. Quel buio di un lettino d’ospedale in codice rosso. La vita che ti passa davanti agli occhi e hai paura di morire, non tanto perché hai paura di morire, ma perché hai la certezza di aver vissuto a vuoto. Mentre il corpo lo abbandonava, il cervello di Fabio ritrovava una dignità. Non è morto, si è salvato ed ha trasformato quell’attimo buio, in una risorsa di energia e di pace. E’, finalmente, venuto meno a se stesso. Alle sue paranoie, ai suoi vizi, alle sue auto-assoluzione. Ha iniziato una nuova vita,quasi da boy scout. Adesso gira nel mio quartiere con un cappellino da baseball in testa. Lucido, sobrio, onesto: ha recuperato quello che poteva recuperare e si occupa di aiutare gli altri.

Loredana, invece, è una donna ricca. Si gode con classe e sobrietà il suo privilegio e tenta di farlo condividere a chi ama. Lavora sodo, ma senza rinunciare mai a tentativi di minuta felicità terrena. Una piccola gita, una buona cena, una serata stimolante. Ultimamente sta aiutando un suo ex fidanzato, crollato nelle sabbie mobili della depressione e della povertà. Lo aiuta in modo orizzontale, senza mai fargli pesare la sua generosità. Lo aiuta in modo costruttivo e non solo economico: gli sta progressivamente trasmettendo una forza che lui pensava di aver definitivamente smarrito. Lo ha accolto senza sviste sentimentali, avendo uno splendido marito,lo ha accolto e basta. Anche Loredana, quindi, è venuta meno a se stessa. Ai legittimi rancori, alle classiche definizioni di ruoli/responsabilità che ci giustificano nel lasciare a terra, chi è caduto a terra. Chi è lui? Perché devo farlo io? Se lo merita? Ma ogniPietàcifa venire meno a noi stessi, ci trasforma in madri/padri degli altri. Una accoglienza che non ha niente di divino: è solo terrena. “Se si ha l’amore in corpo, non serve giocare a flipper”, nel senso che, come quando eravamo bambini, dobbiamo urlare un prontivia e buttarci nelle cose. Recuperare il gusto di essere in quello specifico pezzo di mondo. Sporcarci le mani. E, con tutti i nostri limiti, fare le cose. Perché tanto non farle è peggio. Invece l’Uomo del post ha paura. Ha paura di una donna/uomo, quando gli piace. Ha paura di aiutare gli altri, tanto è inutile. Ha paura di guardare se stesso allo specchio, perché non troverebbe altro che il centrino della nonna fuori posto. Da bambino avevo paura delle melanzane. Mi sembravano un cibo sporco. Poi, avrò avuto circa diciassette anni, ero al mare a Procida con qualche amico ed ebbi un attacco di fame. Erano le quattro del pomeriggio e nel bar ci stava solo un panino rinsecchito con melanzane e provola. Orrore e paura, ma avevo fame e, come mi è capitato raramente in vita, sono venuto meno a me stesso, mangiandolo. Forse è la cosa più buona che abbia ingerito nella mia esistenza. Un ricordo che rende lampante il mio egoismo intellettuale ma che, al tempo stesso mi salva, rendendomi ridicolo e fragilissimo. Invertiamo la rotta e ripartiamo dalle nostre debolezze, mettiamo in discussione i concetti basilari della vita e il modo in cui li abbiamo applicati. Dobbiamo ricominciare proprio tutto daccapo


Amico Luca

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